a cura di Azzurra Baggieri

Dopo i contributi di Gaspare Baggieri, Rossana Vitiello e Jacopo Gnisci, continuano i nostri appuntamenti con l’approfondimento sulla Gestione dei beni cultuali ai tempi del Covid-19, con l’intervista al Prof. Maurizio Quagliuolo, archeologo, museologo, manager dei beni culturali, docente presso l’Università “La Sapienza”, nonché membro di alcune importanti organizzazioni del terzo settore, tra cui Herity International, organizzazione non-profit e non governativa per la gestione di qualità del patrimonio culturale riconosciuta dall’UNESCO.

Di seguito le domande che gli abbiamo posto e le risposte che ha voluto regalare allo Studio.

Buona lettura!

In ottemperanza alle misure governative adottate in Italia, la didattica presenziale presso le Università è stata sospesa, obbligando i docenti a tenere lezioni ed esami utilizzando strumenti telematici. In qualità di docente di Comunicazione museale tecnologia e management del patrimonio culturale presso l’Università Sapienza, lei ritiene che con la didattica on-line la formazione degli studenti venga pregiudicata? Possono essere migliorate le condizioni dell’insegnamento per il tramite delle moderne tecnologie? E se si, come?

Certamente la situazione attuale ha repentinamente modificato contesti, obiettivi, approcci. L’insegnamento non è stato esente dal fenomeno, e le soluzioni proposte e adottate hanno avuto il pregio della (quasi) immediatezza ma il difetto della disomogeneità, raggiungendo con difficoltà o non raggiungendo alcuni obiettivi. Ciò è dovuto al fatto che si scontano (e dolorosamente si scoprono così all’improvviso) le inadeguatezze e le differenze, di hardware, di software ma anche e soprattutto dibrainware -per citare da La Sfida della Complessità-, per l’implementazione dei quali si pensava di avere chissà quanto tempo.

In ogni caso, nessun pregiudizio in linea generale; anzi, devo dire che ricevimenti e tesi di laurea (il mio corso si è svolto nel primo semestre e quindi non ho sperimentato l’insegnamento a distanza), vanno quasi meglio per certi versi. Tuttavia, occorre dire che, almeno per metodi maieutici quale quello che applico e per le esercitazioni collettive, il “sapere della mano” -altra citazione che rubo dall’omonimo libro curato da Angioni-, l’esperienza pratica effettuata in contraddittorio de visu, un po’ come l’apprendistato di bottega nella storia dell’arte, appare difficile da soddisfare pienamente con metodi alternativi. Non a caso si dice rubare il mestiere con gli occhi: spesso l’abile artigiano realizza cose fantastiche di cui non sa spiegare necessariamente il processo che però pratica alla perfezione.

Quindi, la risposta è sì, si può migliorare; fra l’altro il principio del miglioramento continuo è un elemento fondamentale della gestione di qualità. Sicuramente l’intelligenza artificiale e nuove attrezzature sofisticate aiuteranno presto a disegnare strumenti sempre più a misura d’uomo e quindi comprensibili, ad evitare di vedere scene come quella che ha circolato nel Web dove alcuni bimbi ai quali era stato dato un libro tentavano di sfogliarlo scorrendone la copertina come lo schermo di un Ipad. Ma la cosa più importante da ricordare è la chiarezza dello scopo, del percorso e dei risultati attesi (da misurare poi adeguatamente), nonché la capacità di utilizzare, accanto al pensiero logico, quel pensiero laterale tanto caro a De Bono che ci permette di far fronte all’imprevisto.

Lei fa anche parte del collegio didattico del Master in Gestione per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale offerto dall’Università La Sapienza. Pensa che nell’attuale crisi sociale ed economica che stiamo vivendo in Italia, come all’Estero, ci possano essere margini per avanzare ragionate ipotesi di promozione del patrimonio culturale, anche attraverso l’uso della tecnologia, a costo zero (o quasi zero)?

Sicuramente la tecnologia, in particolare l’informatica, permette praticamente di azzerare gran parte dei costi (ma non ad esempio quelli di ideazione, progettazione, descrizione -per citarne alcuni- dovuti al capitale intellettuale), e forme diverse di valorizzazione dei luoghi di cultura come musei, monumenti, aree archeologiche, biblioteche e archivi (di cui mi occupo relativamente alla gestione che serve a svolgere il percorso Valore – Conservazione – Comunicazione – Servizi) sono possibili. Un elemento importante è però quello di non ‘fare concorrenza’, anche a se stessi. Occorre quindi individuare forme complementari di valorizzazione, e non sostitutive di quello che c’è o c’era.

In qualità di Segretario Generale della Herity International, quale ritiene possa essere il ruolo delle organizzazioni non – profit e non governative, come quella della quale fa parte, nella gestione e promozione del mercato dei beni culturali in questo particolare periodo di pandemia e nel futuro?

Il ruolo di un Organismo come HERITY è sicuramente rilevante per almeno due ragioni: la possibilità di confronto e apporto di idee da parte di specialisti di provenienza culturale, geografica e disciplinare diversa (HERITY si relaziona con 35 Paesi), e il supporto al perseguimento di una gestione di qualità del Patrimonio Culturale.

In questo senso il settore non-profit (che apre un capitolo a parte rispetto ai modi in cui la collettività può estrinsecarsi e agire in favore del nostro comune patrimonio) è il luogo elettivo dove sviluppare nuove opportunità di valorizzare, proteggere, comunicare e, perché no, creare occupazione grazie alla ricchezza culturale di ogni Paese. Come ha detto il collega di Board Mohammed Zairi “nessun Paese al mondo si può considerare povero rispetto al patrimonio culturale”.

Ma, secondo gli statements di HERITY, occorre ricordare che: Il Patrimonio Culturale costituisce la memoria collettiva dell’Umanità. Tale memoria raccoglie il complesso dei beni culturali che esprimono le identità dei paesi che li ospitano. Una gestione di qualità di tale patrimonio deve orientarsi alla sua conservazione nel contesto di uno sviluppo compatibile e sostenibile.

picture by Julia M Cameron